Recortes de prensa y noticias de jardines (Sección fuera de España)  

Jardines de Italia


Portada de Ciberjob Historico de noticias de los Jardines de Italia Para escribirnos

lunes, diciembre 09, 2002 :::
 
Le metafore di Melo Freni e l'epistemologia del giardino
Per lo scrittore la Sicilia evocata e immaginifica ha un significato più profondo della sua materiale consistenza

Fuente: Gazzetta del Sud
Fecha: 9-12-02
Autor: Dagmar Reichardt*

Melo Freni è uno scrittore per il quale la realtà irrelata di una Sicilia evocata e immaginifica ha un significato più profondo della sua materiale consistenza. Come alcuni scrittori (per esempio Silvana Grasso, Nino De Vita o Michele Perriera), Freni ha superato l'antinomia del modello verghiano-pirandelliano – ovvero la necessaria scelta tra uno di questi due scrittori siciliani come esclusivo punto di riferimento – prefigurando nuove soluzioni narrative. Nel suo lungo racconto intitolato «Verso la vacanza» (1990) Freni parla attraverso il narratore metadiegetico il quale sostiene che «di Sciascia si è detto che non ha saputo rappresentare altro che il negativo di una certa storia, siciliana e metaforicamente del mondo». Il protagonista di nome Nunziati (un alter ego dello scrittore) aggiunge inoltre che allora anche Manzoni lo si potrebbe definire uno «scrittore negativo, per aver rappresentato la tragica assurdità della storia». Nell'ambito di queste riflessioni introduttive Freni tesse una tripla tela intermediale tra «Il cavaliere e la morte» (1988) di Sciascia, racconto giallo nel quale secondo Nunziati, alias Freni, Sciascia avrebbe anticipato la sua propria morte, e due famose calcografie cinquecentesche di Dürer: «Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo e La malinconia». Da quest'ultima incisione Freni prende spunto per fa riflettere il suo protagonista sull'essenza della malinconia di Sciascia, della sua tristezza e dei suoi stati d'animo. La soluzione viene verbalizzata dall'unica figura femminile del racconto, la signora Ghiberti, la quale comprende che «la Sicilia è una terra con la quale e sulla quale non si può scherzare, senza tenerne in conto la tragicità». Freni parla spesso della Sicilia nella sua produzione poetica, narrativa, teatrale, giornalstica e nei suoi saggi. Questo multiforme autore, notevole anche per la varietà dei generi che segna la sua vita creativa, pare sia sempre alla ricerca dei confini della sua anima, della sua personale «Isola del tesoro, del suo Giardino di Hamdis» (1992), come s'intitola un altro suo felicissimo libro nel quale Freni trova una metafora specifica per la sua terra, quella del giardino. Ma i grandi giardini mitici e leggendari, ricchi di aranci, limoni e di verdure che una volta ornavano la Conca d'Oro palermitana oggi sono scomparsi – l'esplosione edilizia degli anni Sessanta gli ha dato l'ultimo colpo di grazia. Sono rimasti i giardini pubblici: l'Orto Botanico, il parco tropico «La Flora» e la Villa Giulia, il Giardino inglese oppure il Giardino Garibaldi che danno un carattere subtropicale alla modernità «cementata» di tutta la città al di fuori del centro storico palermitano. La base di questi giardini – come giustamente ricorda Freni appunto nel suo libro intitolato «Il giardino di Hamdis» – la crearono gli arabi che importarono in Sicilia nuove piante e nuovi frutti, limoni, aranci, il gelso e il gelsomino, il cotone e le melanzane e le palme. L'influsso arabo sulla Sicilia e su Palermo che i sultani chiamarono «Aziz» (la Splendente, la Magnifica) o «Ziz» (fiore) fu molto fertile non solo dal punto di vista architettonico, alimentare ed economico ma anche culturale e scientifico. Infatti Hamdis – e cui ci riallacciamo alla mentalità di Sciascia – fu un malinconico poeta arabo dell'XI secolo, uno dei primi (e pochi) mussulmani che lasciarono la Sicilia dopo la conquista normanna. Con la tristezza dell'esule cacciato dalla patria cantò per tutta la vita nei suoi versi la Sicilia come paradiso perduto, come «terra promessa» – così dice Freni – come «il giardino più bello, benedetto da Allah», il «giardino del paradiso» insomma. Il «favoloso giardino» di Hamdis, con i suoi aranci, «frutto della facilità», diventa per Freni il filo conduttore del suo specifico discorso poetico sul «giardino» della Sicilia, iniziato con i poeti arabi per non spezzarsi mai più. Il volume raccoglie 19 saggi su questo tema soffermandosi non solo su «Le radici dell'anima» (IV. cap.), cioè sui filosofi e poeti greci, ma illumina diversi mondi letterari come quello di D.H. Lawrence, Stendhal, Cechov oppure Buttitta, Giuseppe Tomasi, Patti, Capuana e altri ancora. Tutti loro toccano il tema del giardino o, almeno, vanno considerati come preziosi «fiori» del giardino ideale di Freni. Infatti, la sua sicilianità consiste proprio in questo suo esprimersi per metafore, nella realizzazione pratica della concezione sciasciana della «Sicilia come metafora» alla quel Freni dà un corpo concreto, sensuale, distintamente florale. La formula del giardino è la vera e propria trovata del Freni che l'ha utilizzata anche nelle sue opere narrative, per esempio nel racconto della pastorella «Marta d'Elicona» (1987), che vive nei dintorni dell'oscuro bosco di «Malabotta» e che si muove in un contesto fantasioso e onirico di un eden primordiale puro e allo stesso tempo tragico. Con questa concezione del giardino Freni risale ad una tradizione teorico letteraria ben definita, aggiungendovi una specificità siciliana di valore epistemologico. Infatti, già per Dante il giardino è un luogo di speciale rilevanza. L'io pellegrino entra nella «selva oscura» all'inizio della «Divina Commedia» per poi scoprire «la divina foresta spessa e viva» nel «Purgatorio» (XXVIII, 2), simbolo di un fiorente paradiso terrestre e allegoria vitale. Nel contesto siciliano il modello dantesco assume un significato particolare. Come spiega anche Emerico Giachery in un suo saggio sull'opera letteraria dello scrittore siciliano Giuseppe Bonaviri, secondo i documenti tramandati dai viaggiatori arabi, la Sicilia fu nei tempi passati un paradiso con una vegetazione rigogliosa distrutta da un dissodamento durato diversi secoli, tanto che l'isola a Goethe parve essere già quasi un deserto. Giachery ne deduce che ogni siciliano conserva nel suo cuore un'innata nostalgia per quella natura vigorosa che una volta aveva ricoperto l'isola. Il topos cristiano dell'hortus conclusus si è iscritto profondamente nella letteratura bucolica e nell'immagine arcadica come correlativo tipologico al paradiso. In particolar modo è da considerare il fatto che il giardino è sempre anche uno spazio chiuso (come quello dell'isola in cui l'effetto si moltiplica, come nel caso della Sicilia), spesso protetto, che esclude ogni conflitto. Nasce così l'idillio di un (parziale) anti-spazio isolano autonomo. Anche per Boccaccio il giardino serbava un segno teleologico (si pensi solo alla gioiosa «Valle delle Donne».) Ma al di là della superficie linguistica il parametro dello spazio apre facilmente delle relazioni metatestuali. Il processo discorsivo che parte dall'evocazione del giardino viene sostituito dal pensiero del giardino nella mente immaginativa del lettore. Nasce così dalla rappresentazione immaginaria del giardino, un'epistemologia del giardino. Giambattista Vico prefigura un prototipico giardino selvaggio nel quale s'incontrano le genti per comunicare in un linguaggio poetico. Da Manzoni il paesaggio non ha più valore meramente pittoresco ma funge anche da entità sociale. Questa posizione manzoniana è puro luogo di delizie (che ai tempi di Palladio fu in prima linea un elemento di creazione architettonica), sia come contrapposizione alla natura esotica descritta frequentemente nell'Ottocento, quando molti autori trasponevano la natura nella lontananza potenziando in questa maniera la forza immaginativa del lettore. Da Verga il paesaggio funge da confidente, da personaggio muto con cui si svolgono i colloqui su diversi piani narrativi. Ma, come abbiamo già osservato, Freni in nuce si orienta meno sulla realtà dell'esperienza umana immaginata da Verga e più sul mondo psicologico sentito da Pirandello, seguendo le tracce di elementi interiori e idealistici. Come molti altri scrittori siciliani, Freni si dedica al tema della Sicilia come leit motiv, anche e soprattutto nel «Giardino di Hamdis». In questo suo discorso sul «giardino» della Sicilia il giardino stesso lo costruisce come un mito. Questo mito ha valore di un'utopia del desiderio, come lo si potrebbe verificare anche nel mito dell'infanzia nell'opera di moltissimi autori di grande pregio, da Vittorini a Bilenchi, Alvaro, Pavese o anche Calvino. Ma Freni non trascura l'ottica storica sociale, la usa invece come fondamento per questa sua costruzione poetica della Sicilia-giardino, soggettiva e esteticamente espressiva allo stesso tempo. Il suo discorso metaforico ma anche storico letterario è forse il contributo di maggior valore all'interno della sua produzione narrativa. Lo è di sicuro rispetto all'iconografia di una sicilianità letteraria intensamente discussa da quando Sciascia pubblicò la sua antologia «Narratori di Sicilia» (1967) insieme a Salvatore Guglielmino. Il dibattito è ancora oggi in fase di evoluzione. «Il giardino di Hamdis» segna, dopo Sciascia (specie in «La corda pazza» del 1970 e «Narratori di Sicilia») e dopo il Bufalino delle «Cere perse» (1985) o di «La luce e il lutto» (1988) una terza tappa decisiva, finora insuperata (ma forse non ancora degnamente valorizzata) nel filone appunto di questa riflessione culturale sull'homo siciliensis e sull'essere siciliani.

*docente di Letteratura Italiana e Scienza Culturale presso le Università di Amburgo e di Brema







::: Noticia generada a las 10:08 PM


 
Palazzo Farnese, il giardino immaginato
Nel volume di Roberta Morisi ricostruito lo spazio verde a nord della mole vignolesca - di Fabio Bianchi

Fuente: Libertá On Line
Fecha: 6-12-02
http://quotidiano.liberta.it/archivio/ArchivioDettagli.asp?IDArt=221079&Y=2002&M=12&D=6

Il grande fervore culturale degli anni '80 ha sancito la rinascita di palazzo Farnese da troppi anni “cava dei restauratori di Stato”: dapprima (1982) il testo-summa di Bruno Adorni “L'architettura farnesiana a Piacenza 1545-1600”, quindi, con l'illuminato Ente Restauro palazzo Farnese, recupero del maestoso complesso ridestinato a contenitore museale.
Impostata la parte burocratica, quasi esauriti gli studi storico-edilizi, rimaneva da approfondire il rapporto con il tessuto urbano: l'ambizioso progetto del Vignola, solo in parte realizzato, presupponeva un'integrazione ambientale, una concezione unitaria con relativo giardino come sfondo naturale. E la giovane studiosa piacentina Roberta Morisi, architetto, specializzata in ricerche storiche, con “I giardini di Palazzo Farnese. Ipotesi ed intenzionalità progettuali”, presentata ieri alla casa editrice Tip.Le.Co., ha colmato questa lacuna, brillantemente indagato la dimensione ancora nascosta del glorioso monumento, attendibilmente ricostruito i dintorni del capolavoro vignolesco. Sullo schema del celeberrimo giardino all'italiana con, da un lato, simmetria e gerarchia, ameni giochi d'acqua, pittoresche grotte e graziosi ninfei prospetticamente coordinati alla fabbrica principale ed articolati su scalinate e, dall'altro, raffinate conoscenze idrauliche, agrarie e botaniche per ingentilire esteticamente l'impianto e trasformarlo in spettacolo naturale, Roberta Morisi, confortata da probanti testimonianze, ha ipotizzato anche per Palazzo Farnese simile esito funzionale. A nord, dove attualmente insistono strutture sportive, per esplicito volere di Margherita Farnese, era stato probabilmente previsto uno spazioso terrazzamento di sublime qualità e perfezione formale purtroppo non attuato, un episodio paesaggistico di valore assoluto per stabilire un forte legame intellettuale e visivo sia con la natura - fiume Po, boschi - che con l'arte e la storia, cioè la città costruita a sud, sull'allineamento Piazza Cavalli-via Cittadella-Palazzo Farnese. Com'è nato l'interesse per questo monumento? «Per formazione sono una restauratrice di edifici storici e, prima di intervenire su un edificio storico, preferisco studiarne l'evoluzione. Mentre lavoravo su palazzi di Piacenza è nata l'idea di cercare documenti sullo spazio retrostante il palazzo che vediamo sempre disgiunto dal tessuto urbano, da piazza Cavalli e dal campo Daturi. Solo attraverso analisi d'archivio ho potuto scoprire che il campo Daturi doveva essere uno spazio indissolubilmente legato alla fabbrica vignolesca per cui ho iniziato a visionare mappe che descrivevano sempre i giardini del palazzo, prima a Piacenza, quindi a Parma, poi a Napoli, infine a Madrid». In origine esisteva dunque un progetto? «E' esistita un'intenzionalità forte e concreta, sia da parte della committenza che del Vignola, di organizzare lo spazio a nord a giardino, mai iniziato e mai concluso perché la fabbrica è rimasta incompiuta. L'ipotesi progettuale è basata sull'analisi dei giardini coevi, quelli del Vignola, della cartografia piacentina e della storia del palazzo».




::: Noticia generada a las 9:11 PM




Powered by Blogger